Ambiente, Salute e Lavoro. La questione Taranto

Ambiente, Salute e Lavoro. La questione Taranto

Martedì 19 ottobre alle ore 18:30 si è tenuto un dialogo on line fra Marco Bentivogli, esperto di politica industriale e Coordinatore di Base Italia, e Alessandro Marescotti, Presidente di peacelink, coordinato da Carlo Cefaloni sui canali di Città Nuova. A questa discussione ho contribuito con alcuni spunti sul rapporto fra ambiente, salute e lavoro, che può trovare una possibile soluzione nel rimettere al centro l’essere umano, la sua salute e quello dell’ambiente in cui vive. Il lavoro non ha alcun senso, se uccide i lavoratori. Un elementare detto popolare afferma che “si lavora per vivere e non si vive per lavorare“.

l dialogo fra Alessandro Marescotti, Presidente di PeaceLink, e Marco Bentivogli, già segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici della CISL e attualmente coordinatore di Base Italia, è avvenuto a due giorni dall’inizio della 49° settimana sociale dei cattolici italiani. Un incontro che ha messo a confronto due idee diverse su Taranto, polarmente opposte, ma in grado di dialogare per capire in che modo si possa pensare un’azione per trovare una possibile soluzione, da migliorare continuamente (Si veda articolo di Carlo Cefaloni).

Iniziamo dalla sentenza al processo “Ambiente Svenduto”

Prima di ragionare sul contenuto della diretta (disponibile per la visione qui), è necessario ricordare la sentenza di prima grado della Corte d’assise di Taranto per il maxi-processo chiamato “Ambiente Svenduto” sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico di Taranto. La Corte ha condannato a ventidue anni Fabio Riva ed a venti anni Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro (Per conoscere le condanne e approfondire l’esito della sentenza, fra le diverse fonti nazionali disponibili in rete, si può consultare il giornale cittadino il Corriere di Taranto).

La vertenza, simbolo in Italia del conflitto polarizzato tra “ambiente-salute” e “lavoro” suscita reazioni opposte nella politica, nel sindacato e nella società civile (si veda a questo proposito l’articolo di Luigino Bruni del 2012 su Città Nuova). La questione centrale ruota attorno al tema dello sviluppo industriale e della produzione europea ed italiana dell’acciaio e non solo. Ci si chiede quale posto abbia l’industria italiana pesante nel contesto europeo e mondiale, soprattutto ci si chiede cosa sarà l’Italia se dovesse conquistare spazi nel dibattito pubblico il principio precauzione. Di fronte a ragioni di politica economica, ci sono questioni riguardanti la salute dei cittadini, siano essi lavoratori o no, e dell’ambiente. La vita umana che valore assume in queste decisioni? La questione, ridotta ai termini più semplici, riguarda la velocità tecnologica e l’economia di guerra fra le nazioni, per cui quando non si combatte una guerra con le armi, la si continua con le materie prime, i semilavorati e la produzione tecnologica.

Un tentativo di muoversi verso una sintesi provvisoria fra imprenditori e lavoratori non è mai esistita a Taranto, dove si contrappone anche oggi il lavoro alla salute e all’ambiente. Non si è mai ascoltato con attenzione chi ha subito lo sviluppo sui territori e non si è compreso che non si è tutti uguali. Ci sono delle responsabilità in capo ai decisori politici, sindacali ed imprenditoriali che non possono essere composti bonariamente con i cittadini. Infatti, a Taranto, è dovuta venire in soccorso la forza della legge, con una sentenza di primo grado molto importante per capire cosa significa svendere la salute e l’ambiente.

Di fronte a queste domande insolute, è iniziata la discussione fra Marescotti e Bentivogli, una discussione ricca di spunti per capire ma, soprattutto, da cui partire seriamente per agire.

(Per capire meglio cosa è successo dagli anni Sessanta in poi, è importante conoscere la storia dell’acciaieria di Taranto, necessaria per comprendere come si è arrivati al 2021 senza soluzioni reali al problema industriale, sociale e ambientale. A tal fine si suggerisce di leggere quanto link: https://it.wikipedia.org/wiki/Acciaierie_di_Taranto e https://www.peacelink.it/processoilva/a/48496.html)

L’aria di Taranto

Iniziare dall’aria di Taranto non è mai banale. Rappresenta, invece, il primo passo per capire perché molti organi di informazione riportano dati parziali per giustificare l’inquinamento della città.

A Taranto c’è una concentrazione di fonti di inquinamento che andrebbero controllate e mitigate per non nuocere alla salute e all’ambiente. I quartieri più esposti, Tamburi, Paolo VI e Borgo, afferma Marescotti, contano un eccesso di mortalità rispetto alla media nazionale e sono più esposti agli inquinanti provenienti dalle acciaierie.

La prevalenza della polarità produttiva su quella della salute e dell’ambiente

Negli anni passati, e anche oggi, i movimenti hanno sempre cercato una soluzione che vedesse assieme lavoro, salute e ambiente, spiega Marescotti, tanto che le prime riunioni si svolsero nelle sedi di un sindacato e si chiese nei primi anni di attività delle associazioni, la collaborazione di Gianni Alioti, all’epoca sindacalista della FIM CISL, per identificare quali fossero le migliori tecnologie da proporre per risolvere il problema. Ma nonostante gli sforzi e la fattiva collaborazione, le proposte non furono prese in considerazione.

Il risultato odierno delle scelte prese in quegli anni è sotto gli occhi di tutti. Si è avuto bisogno della magistratura e della forza della legge per affermare le ragioni dei movimenti contro la forza dell’imprenditoria dell’acciaio. In questo contesto i sindacati si sono lentamente defilati a protezione del solo lavoro. Come spiega Bentivogli, questo non volle essere un allontanamento, ma un ragionare, a livello macro economico, sul ciclo integrale di produzione dell’acciaio al fine di garantire la sopravvivenza di un’industria strategica per il paese. Se tutti i proprietari delle acciaierie di Taranto sottovalutarono l’impatto ambientale dell’ex-ILVA, i comuni non fecero nulla per evitare di avvicinare le case all’area produttiva, attraverso un’espansione dei piani regolatori. Inoltre Bentivogli ha ribadito che se la fabbrica non è più produttiva, nessuno è più interessato alle bonifiche. Il rischio, quindi, è che i veleni rimangano abbandonati senza più alcuna cura (si veda il suo ultimo articolo sull’argomento su “Il Foglio”). Proprio per questo motivo, lui ha sempre sostenuto di imitare il modello della città austriaca di Linz, la quale, come Taranto, non ha soluzione di continuità fra città e sito produttivo e produce bene e con profitto, rispettando i limiti di inquinamento.

Il fallimento del dialogo

Se una parte, i cittadini organizzati, ha cercato il confronto, la parte imprenditoriale ha curato esclusivamente il rapporto con i sindacati ed il governo, nazionale, regionale e locale, in difesa della produzione ad ogni costo. Questa separazione ha rafforzato la polarità produttiva, la proprietà, e ha escluso i cittadini dalle decisioni da prendere ai tavoli negoziali in Prefettura, dove sedevano solo i sindacati. In questo contesto di separazione, accettato dai sindacati dell’epoca, si è indebolito il confronto dialogico tra le parti. Gli attori imprenditoriali hanno potuto presentare dossier molto tecnici, composti da centinaia di pagine e altamente complessi, al fine di guidare le eventuali trattative sul sito di produzione, mettendo in difficoltà, come spiega Alessandro Marescotti, i dirigenti sindacali che non riuscivano a comprendere, nel poco tempo disponibile, la corposa e complessa documentazione.

Tecnicizzazione, velocità ed esclusione

La tecnicizzazione e la velocità con cui bisogna prendere le decisioni in un’economia sempre più autoreferenziale e votata esclusivamente al profitto, hanno messo sotto pressione lavoro-salute-ambiente, che per la loro fragilità sono comprimibili, soprattutto al sud, dove la carenza di lavoro è lo strumento di ricatto più forte per paralizzare qualsiasi ragionamento sulla conversione ecologica integrale.

Qui sarebbe dovuto intervenire lo Stato, contribuendo a costruire un dialogo democratico per cambiare le sorti dell’acciaieria e provare a prospettare un’industria capace di futuro assieme alla cittadinanza, mettendo a dialogo le polarità e bilanciandone i poteri.

Questa situazione è mancata, come in tutte le grandi opere, dove la polarizzazione è la normalità per l’impatto che esse hanno sulle popolazioni locali e sull’ambiente e dove si impongono le decisioni in nome di una velocità che sembra non potersi fermare, neanche di fronte ad un principio precauzione che imporrebbe di riflettere e condividere. Qualche accenno di costruzione di dialogo sulle grandi opere si ebbe con l’introduzione dell’art. 64 del Decreto Legislativo n.50 del 2016, ma i suoi limiti sono troppo evidenti per pensare di costruire patti sui territori per un reale sviluppo umano integrale. Questa fragilità rappresenta un problema ed un pericolo per la democrazia e per il futuro dell’applicazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, perché i fondi per la transizione ecologica e la riconversione seguiranno le logiche del mercato e saranno disegnate secondo gli interessi delle lobby che hanno guidato e guidano il paese dal punto di vista produttivo ed energetico. Non ci sarà, quindi, alcuna reale conversione.

L’unità fra le parti più fragili per il bene comune

Un confronto costruttivo fra sindacati, lavoratori e cittadini, potrebbe riequilibrare un confronto ormai completamente spostato su una polarità, quella produttiva. Dal dialogo fra Marescotti e Bentivogli è emerso un possibile confronto nella diversità. Ma è mancata un’analisi di cosa non è andato, soprattutto da parte sindacale. Il concetto di mediazione per raggiungere un risultato buono, non il migliore, è un principio importante, ma solo se si parte da un’idea forte che è alternativa e capace di futuro.

Si dovrebbe riprendere questo metodo per aprire un confronto con chi, al momento, guida la transizione ecologica italiana, intercettando tutto il fermento che anima la scuola ed i giovani. Il sindacato avrebbe tutta quell’esperienza pragmatica di vittorie e fallimenti da poter condividere, per poter costruire scelte realistiche per raggiungere i difficili obiettivi che l’Europa ed il mondo si sono dati.

Un nuovo patto, frutto del confronto dialogico

Servirebbe un patto, un’alleanza, nella realtà, senza paura di confrontarsi da posizioni diverse, ma con l’obiettivo di voler preservare la casa comune in cui costruire un presente capace di futuro per l’umanità e l’ambiente. Per farlo, però, non basta un unico punto di vista, ci vuole la ricchezza delle diversità ed il rispetto di tutte le idee. Sicuramente, un indicatore indispensabile per cambiare strada è lo sviluppo integrale ed il benessere umano, perché se è chiaro dove siamo andati, non è chiaro quanti abbiamo lasciato fuori, senza vita, lungo la strada.

È ora di far contare gli ultimi, rimasti indietro, e rivedere i costi praticamente, attraverso un enorme sforzo ideale che abbia il coraggio di muoversi fra le polarità, conscio che sbaglierà sicuramente, ma proverà a trovare soluzioni. Riprendiamo il percorso, perché ci troviamo di fronte ad un grande problema che richiede uno sforzo enorme e costante nel tempo. Dobbiamo disarmare l’economia.