Politica ambientale e movimenti del NO. Due casi italiani

Politica ambientale e movimenti del NO. Due casi italiani

ll mio contributo “Politica ambientale e movimenti del NO. Due casi italiani” (Política medioambiental y movimientos del NO. Dos conflictos ambientales en Italia), presentato in videoconferenza al Foro “liderazgo y cambio climatico” del XXII Simposium Mundial de liderazgo, evento internazionale con studiosi provenienti da centri di ricerca universitari del Messico, Italia, Francia, Cile, Bolivia, Costa Rica, Repubblica Dominicana tenutosi dal 16 al 18 novembre 2021.

I due casi italiani, esemplificativi di un confronto fra ambiente, salute, lavoro e capitale, sono quelli dell’Ex-ILVA di Taranto e il caso della presenza di PFAS in acqua nel Veneto (e Piemonte).

Un confronto costruttivo fra leadership politica-economica con i sindacati, i lavoratori ed i cittadini, potrebbe riequilibrare un dialogo ormai completamente spostato su una polarità, quella produttiva. Il concetto di mediazione per raggiungere un risultato buono, non il migliore, è un principio importante, ma solo se si parte da un’idea forte che è alternativa e capace di futuro.

Presentazione del XXII Simposio internazionale sulla Leadership

Qui, di seguito, il testo dell’intervento tenuto il 18 novembre alle 18, orario di La Paz (MX).

Pagina iniziale delle slide di presentazione

Siamo tutti sulla stessa barca!

Partirei dalla sera del 27 marzo 2020, sul sagrato di San Pietro, dall’immagine del Papa che avanza solo sotto la pioggia e, una frase attraversa il vuoto pubblico lasciato dalla pandemia: “Siamo tutti sulla stessa barca”. Di fronte alla pandemia, abbiamo realizzato che in un mondo interconnesso, siamo come i discepoli nella tempesta, abbiamo paura e comprendiamo che ci si può salvare solo tutti assieme.

Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato

Un’immagine che parla da sola, ma vorrei integrare con delle parole che, ritengo, segnino profondamente l’azione futura, riprese dalla lettera del Santo Padre Francesco al Presidente della Repubblica di Colombia in occasione della Giornata Mondiale dell’ambiente, il 05 giugno 2020:

“La protezione dell’ambiente e il rispetto della “biodiversità” del pianeta sono temi che ci riguardano tutti. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi. La cura degli ecosistemi ha bisogno di uno sguardo di futuro, che non si limiti solo all’immediato, cercando un guadagno rapido e facile; uno sguardo che sia carico di vita e che cerchi la preservazione a beneficio di tutti.

Il nostro atteggiamento dinanzi al presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo rimanere muti di fronte al clamore quando comproviamo gli altissimi costi della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema. Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti dinanzi ai segni di un pianeta che si vede saccheggiato e violentato, per la brama di guadagno e in nome — molto spesso — del progresso. Abbiamo la possibilità d’invertire la marcia e puntare su un mondo migliore, più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi; se lo vogliamo veramente.”

Cos’è la politica ambientale?

La politica ambientale contemporanea è nata nel 1972, dopo il primo lavoro scientifico sui danni all’ambiente e alla salute umana dello sviluppo tecnologico in agricoltura, la Primavera Silenziosa di Rachel Carson, e sulla prima ricerca sperimentale con simulazione dei computer sui limiti dello sviluppo, dei ricercatori del MIT di Boston, commissionato dal Club Roma. Lo stesso anno viene convocata la Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del 1972 sull’Ambiente, importante per cominciare a definire il cuore della politica ambientale a livello internazionale, come sostiene il principio n.1: “L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’uguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere (…)”.

Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del 1992 su Ambiente e Sviluppo

Ma la svolta concettuale si ebbe con la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del 1992 su Ambiente e Sviluppo, che nasceva dalla consapevolezza, nata con il Rapporto Brundtland, che non si potessero scindere le politiche ambientali da quelle economiche:

  • Lo sviluppo sostenibile, introdotto dal principio n.4, che recita “al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo”.
  • Il Principio di precauzione, codificata dal principio n.15 che ha introdotto un elemento di novità rispetto al principio di prevenzione: “Al fine di proteggere l’ambiente, l’approccio precauzionale dovrà essere largamente applicato dagli Stati a seconda delle loro possibilità. Qualora ci siano minacce di gravi o irreversibili danni, l’assenza di certezza scientifica assoluta non dovrà essere addotta come ragione per ritardare le misure antieconomiche utili a prevenire il degrado ambientale”.
  • Principio di responsabilità intergenerazionale. Lo sviluppo per essere sostenibile e per garantire un futuro alle prossime generazioni, deve sfruttare equamente le risorse naturali, ponendo un limite allo sviluppo stesso, come recita il principio n.3, “Il diritto allo sviluppo deve essere attuato in modo da soddisfare equamente le esigenze ambientali e di sviluppo delle generazioni presenti e future”.
  • La responsabilità comune ma differenziata, come recita il principio n.7: “In ragione del diverso contributo al degrado ambientale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I Paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe su di essi nel perseguimento dello sviluppo sostenibile a causa delle pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e delle tecnologie e delle risorse finanziarie di cui dispongono”. “Gli Stati devono cooperare in uno spirito di partnership globale per conservare, proteggere e restaurare la salute e l’integrità degli ecosistemi della Terra”, prevedendo che “essi devono cooperare in modo spedito e più determinato per lo sviluppo di nuove regole di diritto internazionale riguardanti la responsabilità e il risarcimento degli effetti negativi derivanti dai danni all’ambiente causati da attività poste in essere all’interno della loro sfera di giurisdizione o controllo o al di fuori di esse”

La crisi della leadership nella crisi ecologica contemporanea

Il problema della capacità di risolvere i problemi posti dalla crisi ambientale e climatica da parte della leadership politica, sono evidenti non solo nei grandi appuntamenti internazionali, come la Conferenza delle Parti, che ogni anno porta all’attenzione mondiale sull’inquinamento ambientale ed i cambiamenti climatici, ma soprattutto nei conflitti ambientali ed economici locali.

L’Italia, la crisi ambientale ed i movimenti del NO

In Italia, negli ultimi decenni, lo scontro ruota attorno alla realizzazione di grandi opere, della gestione di industrie ad alto impatto ambientale e, in ultimo sulla gestione dei rifiuti. A questo proposito i movimenti territoriali che si pongono criticamente verso questo tipo di sviluppo sono come le sentinelle del mattino a protezione di quei beni comuni fondamentali che sono la salute, l’ambiente e lo sviluppo integrale. Essi rappresentano l’ultima opposizione possibile ad uno sviluppo ormai senza alcun limite, frutto di una tecnologia che ha assunto una velocità tale da divenire difficilmente controllabile e prevedibile nei suoi effetti anche a breve termine.

Nel tempo, alla concentrazione dei profitti ed alla socializzazione dei costi umani e ambientali, in Italia ed in Europa, l’imprenditoria ha trovato dei validi alleati nei sindacati, che hanno barattato la difesa del lavoro, come se esso rappresentasse un bene in sé, con la salute dei lavoratori e la cura dell’ambiente. Come se i tre beni da tutelare, lavoro-salute-ambiente, fossero fra loro incompatibili. La velocità, unita alla voracità, si trasforma in una miscela esplosiva che seduce in maniera impressionante l’egoismo consumista dei singoli e sfrutta la disperazione dei lavoratori, soprattuto in un periodo in cui il lavoro è sempre più sotto pressione per una continua erosione dei diritti.

In questo contesto c’è un grande assente, la leadership politica, necessaria per realizzare quelle idee nate a Rio nel 1992 e che, purtroppo, non trovano mai l’interlocutore necessario: le istituzioni.

Due casi italiani

I due casi che presento in estrema sintesi riguardano l’ex ILVA di Taranto, nel sud Italia, e l’inquinamento delle falde acquifere di una zona del Veneto, nord Italia.

Il caso ex-ILVA di Taranto

Il Centro siderurgico di Taranto fu inaugurato ufficialmente il 10 aprile 1965, come industria dello Stato italiano. Fu scelta la città sia per le sue aree pianeggianti e vicine al mare, sia per la disponibilità di manodopera grazie alla sua ubicazione nel Mezzogiorno d’Italia, usufruendo si contributi statali per le zone povere del sud Italia. L’impianto fu costruito nelle immediate vicinanze del quartiere Tamburi, che fu ampliato con edilizia popolare per gli operai, che oggi conta circa 18.000 abitanti. Dall’insediamento sono sorti un cementificio con gli impianti di cava connessi e altre aziende manifatturiere.

Immagine di Taranto con le acciaierie ex-ILVA (foto proveniente dal sito PeaceLink.it)

Negli anni, l’inquinamento prodotto in particolare dall’acciaieria, ha spaventato i cittadini perché nei quartieri più vicini risultava un incremento consistente di tumori. Sono nati diversi comitati che hanno cercato di far cambiare le cose. I movimenti del NO hanno sempre cercato una soluzione che vedesse assieme lavoro, salute e ambiente, sforzandosi di proporre l’installazione delle migliori tecnologie per risolvere il problema e continuare a produrre. Ma nonostante gli sforzi e la fattiva collaborazione, le proposte non furono mai prese in considerazione.

La vertenza è divenuta il simbolo in Italia del conflitto polarizzato tra “ambiente-salute” e “lavoro”, che ruota attorno al tema dello sviluppo industriale e della produzione europea ed italiana dell’acciaio e non solo, con un principio dimenticato nel dibattito pubblico: il principio precauzione.

Di fronte a ragioni di politica economica, ci sono questioni riguardanti la salute dei cittadini, siano essi lavoratori o no, e dell’ambiente. La questione, ridotta ai termini più semplici, riguarda la velocità tecnologica e l’economia di guerra fra le nazioni, per cui quando non si combatte una guerra con le armi, la si continua con le materie prime, i semilavorati e la produzione tecnologica.

La sentenza di prima grado della Corte d’assise di Taranto per il maxi-processo chiamato “Ambiente Svenduto” sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico di Taranto, pronunciata a maggio 2021, ha condannato a ventidue anni Fabio Riva ed a venti anni Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

La vertenza, è stata una sconfitta per la leadership politica ed economica del paese perché non si è mai ascoltato con attenzione chi ha subìto lo sviluppo sui territori e non si è compreso che non si è tutti uguali. Ci sono delle responsabilità in capo ai decisori politici, sindacali ed imprenditoriali che non possono essere composti bonariamente con i cittadini. Infatti, a Taranto, è dovuta venire in soccorso la forza della legge, con una sentenza di primo grado molto importante per capire cosa significa svendere la salute e l’ambiente.

Il caso PFAS in acqua nel Veneto

Dal 1962 a Trissino, nel vicentino, un’industria chimica si è insediata nella zona di ricarica della più grande falda acquifera italiana per effettuare la produzione di sostanze impermeabilizzanti usate in larga scala dall’industria. Lo sversamento continuo di Pfas effettuato da allora nel vicino torrente Poscola e nel terreno, ha inquinato completamente la falda acquifera rendendo inutilizzabili gli acquedotti di trenta comuni con 350.000 abitanti, i pozzi e le acque di superficie delle tre provincie a forte vocazione agricola.

Immagine proveniente dal sito PFAS.land, in occasione della ispezione ONU a dicembre 2021

Le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) sono composti chimici che non esistono in natura ma sono stati prodotti dall’uomo con una combinazione di atomi di fluoro e carbonio. Il risultato è una sostanza inodore ed insapore che serve all’industria per impermeabilizzare gli oggetti anche di uso quotidiano come le carte forno, le padelle antiaderenti, le pellicole e molto altro. Queste sostanze si accumulano nei tessuti del nostro corpo e, una volta entrate nel corpo umano attraverso l’acqua o gli alimenti non vengono eliminate perché dopo essere state filtrate dai reni vengono riassorbite e rimesse in circolo. Sono quindi tossiche per il corpo umano.

Nel 2013 i risultati di due anni di studi e ricerche sui fiumi italiani da parte dell’IRSA del CNR hanno rilevato alte concentrazione di Pfas negli scarichi industriali del distretto Industriale dove è localizzato lo stabilimento in questione. Nel 2017, dopo un piano di sorveglianza sanitaria della popolazione della zona contaminata, quattro mamme di fronte ad una altissima concentrazione di Pfas nel sangue dei propri figli, hanno deciso di studiare e, con l’aiuto di esperti, hanno incontrare sindaci, presidenti di regione, ministri ed istituzioni per chiedere conto di come era potuto accadere un disastro per 30 anni senza che nessuno lo fermasse.

Anche in questo caso, per ottenere giustizia, le mamme NOPFAS hanno cercato la via giudiziaria, con l’avvio del processo in cui si sono costituite parte civile per rappresentare i cittadini comuni che hanno subito uno stravolgimento della loro vita. La giustizia non l’aspettano dalla leadership politica, ma dal processo in corso. Si aspettano che possano ricostruire e fare chiarezza su tutti gli anni in cui si è inquinato consapevolmente un territorio, sperando che vengano individuate le responsabilità della politica e dell’imprenditoria coinvolta, oltre che degli enti che non hanno vigilato.

Agire perché tutto è connesso.

La risposta dei partecipanti ai movimenti del NO, che hanno sentito e visto l’effetto dello sviluppo senza limiti sulla loro salute e sul territorio in cui vivono, è che bisogna cambiare partendo dal locale, per creare una fase transitoria che possa condurre ad una prosperità diversa rispetto a quella del consumo ed accumulo senza alcun senso, se non per pochi. Partendo dal locale, ci si può connettere con tutta l’umanità.

Le istanze dei NO: una transizione ecologica integrale

Ecco a cosa servono i NO che fanno la transizione ecologica. Servono a riaccendere la polarizzazione del confronto fra posizioni diverse, al fine di promuovere uno sviluppo integrale che non sia uno STOP a tutto. Anzi, i loro NO tratteggiano un atteggiamento maturo verso la tecnologia, abbandonando l’atteggiamento infantile degli ultimi duecento anni, sfruttato da chi per il profitto ha distrutto casa propria. Questo perché tutto è connesso!

Tecnicizzazione e Leadership

La politica si trova, infatti, schiacciata fra la tecnicizzazione e la velocità con cui bisogna prendere le decisioni in un’economia sempre più autoreferenziale e votata esclusivamente al profitto. Queste caratteristiche decisionali hanno messo sotto pressione lavoro-salute-ambiente, che per la loro fragilità sono comprimibili, soprattutto nei sud del mondo, dove la carenza di lavoro è lo strumento di ricatto più forte per paralizzare qualsiasi ragionamento sulla conversione ecologica integrale.

Qui sarebbe dovuto intervenire lo Stato, contribuendo a costruire un dialogo democratico per costruire una conversione ecologica integrale, mettendo a dialogo le polarità e bilanciandone i poteri. Ma non è mai successo.

L’unità fra le parti più fragili per il bene comune

Un confronto costruttivo fra leadership politica-economica con i sindacati, i lavoratori ed i cittadini, potrebbe riequilibrare un dialogo ormai completamente spostato su una polarità, quella produttiva. Il concetto di mediazione per raggiungere un risultato buono, non il migliore, è un principio importante, ma solo se si parte da un’idea forte che è alternativa e capace di futuro.

La necessità di una leadership dialogante

Si dovrebbe riprendere questo metodo del confronto con chi, al momento, guida la transizione ecologica, intercettando tutto il fermento che in questi mesi anima la scuola ed i giovani. Servirebbe un patto, un’alleanza, nella realtà, senza la paura del dialogo da posizioni diverse, ma con l’obiettivo di voler preservare la casa comune in cui costruire un presente capace di futuro per l’umanità e l’ambiente. Per farlo, però, non basta un unico punto di vista, ci vuole la ricchezza delle diversità ed il rispetto di tutte le idee. Sicuramente, un indicatore indispensabile per cambiare strada è lo sviluppo integrale ed il benessere umano, perché se è chiaro dove siamo andati, non è chiaro quanti abbiamo lasciato fuori, senza vita, lungo la strada. È ora di far contare gli ultimi, rimasti indietro, e rivedere i costi praticamente, attraverso un enorme sforzo ideale che abbia il coraggio di muoversi fra le polarità, conscio che sbaglierà sicuramente, ma proverà a trovare soluzioni. Riprendiamo il percorso, perché ci troviamo di fronte ad un grande problema che richiede uno sforzo enorme e costante nel tempo, disarmare l’economia dalla violenza e dall’oppressione sui più deboli.