50 anni fa, la Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente

50 anni fa, la Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente

La Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del 1972 e la Conferenza ONU di Rio de Janeiro del 1992 hanno rappresentato il tentativo mondiale di rispondere ai molti allarmi lanciati dagli scienziati e dalla società civile sull’inquinamento e la distruzione dell’ambiente.

Sono passati 50 anni ed il mondo intero, la sua classe politica, imprenditoriale, culturale, ha fallito. Quanto siamo lontani dalla prospettiva del Segretario ONU dell’epoca, Kurt Waldheim, e del primo ministro svedese, Olof Palme, che alla Conferenza del 1972 parlarono di sviluppo umano basato sulla pace come unico modo per poter proteggere l’ambiente e combattere l’inquinamento, un’emergenza da affrontare velocemente ma con la consapevolezza che questi cambiamenti richiedono del tempo, da non perdere e sprecare.

Articolo di Antonio Cederna del 1972

A distanza di 50 anni, di fronte alla necessità di una politica fondata sulla pace per proteggere il nostro comune futuro e preservare l’ambiente per le giovani generazioni, cambiando il modo con cui consumare e vivere, abbiamo continuato a seguire una politica piegata allo sviluppo predatorio e all’etica del cowboy. In sostanza, il mondo continua lungo la strada di uno sviluppo infinito che può essere difeso e sostenuto solo con le armi e le guerre.

Intervento del primo ministro svedese Olof Palme alla Conferenza delle Nazioni Unite del 1972

“è terrificante che (…) immense risorse continuino ad essere consumate in armamenti per alimentare conflitti armati, sprecando e minacciando ancora di più l’ambiente umano. (…) bisogna sostenere il disarmo per eliminare armi nucleari e biologiche”

In un passaggio dell’intervento di Olof Palme (da circa il minuto 7:30 al minuto 8:30)

La conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del 1972

La Conferenza di Stoccolma, tenutasi dal 5 al 16 giugno del 1972, adottò, alla conclusione dei lavori, a cui parteciparono 114 Stati, una dichiarazione in 26 principi con un preambolo di 6 punti, nel quale si sottolineava quanto la situazione di degrado ambientale fosse dovuta ad ignoranza temporanea che un approfondimento della conoscenza tecnologica poteva far superare.

Il principio n.1 mise in risalto il rapporto forte esistente fra diritti umani e diritto ad un ambiente sano, infatti esso sostiene che “L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’uguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere (…)”.

Il principio n.21, ritenuto generalmente parte integrante del diritto consuetudinario internazionale, recita: “In conformità allo Statuto delle Nazioni Unite ed ai principi del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse secondo le loro politiche ambientali, e hanno il dovere di assicurare che le attività esercitate nei limiti della loro giurisdizione o sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o in aree al di fuori dei limiti delle giurisdizioni nazionali”. Questo principio fornì un contributo essenziale per la creazione di nuove norme internazionali, a cui presero parte un numero notevole di Stati.

La dichiarazione di Stoccolma trattò per la prima volta l’opportunità che lo sviluppo fosse compatibile con la protezione ambientale (principio n.13), cercando una soluzione a quello che all’epoca era ritenuta una antinomia, coniugare sviluppo e ambiente. A questo proposito il principio n.8 affermò che “Lo sviluppo economico e sociale è indispensabile se si vuole assicurare un ambiente propizio all’esistenza ed al lavoro dell’uomo e creare sulla Terra le condizioni necessarie al miglioramento del tenore di vita” ed il principio n.11 sostenne che “Le politiche ambientali di tutti gli Stati devono aumentare e non colpire il potenziale di sviluppo, presente e futuro, dei paesi in via di sviluppo e non devono neppure impedire il raggiungimento di condizioni di vita migliori per tutti (…)” attraverso l’assistenza e la cooperazione  internazionale a diversi livelli, prevista nei principi n.9, 10, 12, 24 e 25.

Come conseguenza della Dichiarazione di Stoccolma, l’Assemblea Generale dell’ONU creò nel 1972 l’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, un organo sussidiario dotato di forte autonomia. Quest’organo è la sede da cui vengono avviati numerosi negoziati sulle tematiche ambientali, tra cui quello sui cambiamenti climatici.


La Conferenza ONU su Sviluppo ed Ambiente di Rio de Janeiro del 1992

La Conferenza delle Nazioni Unite su Sviluppo ed Ambiente di Rio de Janeiro, definito il Vertice della Terra, si tenne dal 3 al 14 giugno del 1992 e parteciparono 183 Stati. La Conferenza nasceva dalla consapevolezza, conseguenza del Rapporto Brundtland, che non si potessero scindere le politiche ambientali da quelle economiche; infatti la conferenza venne convocata dalla stessa risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU, la n.44/228 (1988), che recepì il predetto Rapporto.

I risultati furono una Dichiarazione di principi su Ambiente e Sviluppo, l’Agenda 21, la Dichiarazione autorevole di principi per un consenso globale sulla gestione, conservazione e sviluppo sostenibile delle foreste e furono aperte alla firma degli Stati la Convenzione sui cambiamenti climatici e la Convenzione sulla diversità biologica. Questo aspetto della Dichiarazione di Rio, secondo la dottrina, si può desumere da tre elementi riscontrabili nel testo stesso:

  • il linguaggio assume spesso un carattere vincolante, attraverso l’uso di shall invece che di should, a differenza della Dichiarazione di Stoccolma;
  • i 27 principi, adottati per consensus, sono da leggere organicamente perché diversi principi contribuiscono a definire un concetto; la Dichiarazione è stato il frutto di un compromesso fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo per la realizzazione di obblighi generalmente accettati per la protezione internazionale ambientale.

La dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo è composta da 27 principi che delineano i caratteri generali dello sviluppo sostenibile ed introducono dei temi fondamentali per la tutela della natura quali il principio precauzione, la responsabilità intergenerazionale e la responsabilità comune ma differenziata fra Stati del Nord e del Sud in materia ambientale[4].

Il principio n.2 riprende quanto già contenuto nella Dichiarazione di Stoccolma nel principio n.21, superando il generico riferimento ad evitare i danni all’ambiente attraverso un riferimento esplicito alle politiche ambientali e di sviluppo.

Lo sviluppo sostenibile. Il principio n.4, che recita “al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo”, illustra chiaramente che la tutela ambientale rientra nel processo di sviluppo e non si può considerare come un principio a sé stante; ma la crescita deve trovare un limite nell’uso sostenibile delle risorse, così come enunciato dal principio n.8, il quale prevede che “gli Stati devono ridurre ed eliminare i modelli insostenibili di produzione e di consumo e promuovere adeguate politiche demografiche”. Questo concetto, in un’ottica antropocentrica, pone l’essere umano al centro dello sviluppo sulla base di un diritto ad una vita sana e produttiva, come afferma il principio n.1, e sottolinea la necessità che esso si ponga come obiettivo primario l’eliminazione della povertà, in conformità al contenuto del principio n.5; esso, quindi, assume una configurazione tripartita composta dallo sviluppo economico, la tutela ambientale e, soprattutto, la promozione dello sviluppo sociale, lasciando trasparire la sua multidimensionalità.

Principio di precauzione. La precauzione è stata codificata dal principio n.15 che ha introdotto un elemento di novità rispetto al principio di prevenzione. Se la prevenzione si applica a rischi calcolabili e scientificamente conosciuti, la precauzione riguarda tutti quegli eventi che possono cagionare un rischio sul quale, però, non c’è alcuna certezza scientifica. Quindi esso rappresenta un modo di valutare l’incertezza, da una parte evitando la paralisi dovuta alla paura e dall’altra ponendo un limite ragionevole allo sviluppo. Questo principio è fondamentale per rafforzare la sostenibilità dello sviluppo stesso, infatti il testo afferma che “Al fine di proteggere l’ambiente, l’approccio precauzionale dovrà essere largamente applicato dagli Stati a seconda delle loro possibilità. Qualora ci siano minacce di gravi o irreversibili danni, l’assenza di certezza scientifica assoluta non dovrà essere addotta come ragione per ritardare le misure antieconomiche utili a prevenire il degrado ambientale”.

Principio di responsabilità intergenerazionale. Lo sviluppo per essere sostenibile e per garantire un futuro alle prossime generazioni, deve sfruttare equamente le risorse naturali, ponendo un limite allo sviluppo stesso. Esso è fortemente legato al principio precauzione perché fornisce il fine della precauzione stessa: garantire il futuro. Come recita il principio n.3, “Il diritto allo sviluppo deve essere attuato in modo da soddisfare equamente le esigenze ambientali e di sviluppo delle generazioni presenti e future”.

La responsabilità comune ma differenziata. Il principio n.7 riconosce che “In ragione del diverso contributo al degrado ambientale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I Paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe su di essi nel perseguimento dello sviluppo sostenibile a causa delle pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e delle tecnologie e delle risorse finanziarie di cui dispongono”. Nel diritto pattizio questo principio è alla base del regime duale di raggiungimento degli obiettivi, ed ha trovato applicazione pratica soprattutto nella ripartizione degli oneri fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo[6].

Inoltre, la dichiarazione evidenzia, sempre nel principio n.7, che “Gli Stati devono cooperare in uno spirito di partnership globale per conservare, proteggere e restaurare la salute e l’integrità degli ecosistemi della Terra”, ribadendo quanto già contenuto nella Dichiarazione di Stoccolma però precisandone il contenuto prevedendo che “essi devono cooperare in modo spedito e più determinato per lo sviluppo di nuove regole di diritto internazionale riguardanti la responsabilità e il risarcimento degli effetti negativi derivanti dai danni all’ambiente causati da attività poste in essere all’interno della loro sfera di giurisdizione o controllo o al di fuori di esse” (principio n.13).

La dichiarazione ritiene la valutazione di impatto ambientale come strumento procedurale nazionale per prevenire che attività umane possano avere un impatto negativo sull’ambiente (principio n.17) ed inoltre, sottolinea come lo Stato dovrebbe garantire ai cittadini la possibilità di partecipare al processo di formazione della valutazione ambientale, attraverso l’adozione di procedure trasparenti e la garanzia di accesso agli atti da parte di tutti i cittadini interessati (principio n.10), elementi fondanti una democrazia ambientale, riconosciuti anche nella Convenzione di Aahrus del 1998, promossa dall’UNECE[7], “relativa all’accesso all’informazione, partecipazione pubblica alle decisioni e accesso ai giudici in questioni ambientali”, entrata in vigore nel 2001 fra diversi Stati europei e all’interno dell’Unione Europea.

Inoltre nella dichiarazione, con il principio n.16, viene menzionato il meccanismo “chi inquina, paga”, il quale ha lo scopo di internalizzare i costi ambientali, evitando che gli stessi possano nuocere all’interesse pubblico e al commercio internazionale, ma prevedendo uno strumento in grado di imporre economicamente il rispetto degli standard ambientali durante il processo di produzione.

Oltre la Dichiarazione di Rio, un altro atto che è fallito nel suo intento di cambiare il mondo, è stato l’Agenda 21, un programma di promozione dello sviluppo sostenibile all’interno della società mondiale con una puntuale descrizione degli interventi necessari per realizzarlo, con quattro sezioni: la prima sulle “Dimensioni economiche e sociali” di nuovi schemi di comportamento per realizzare uno sviluppo sostenibile; la seconda sulla “Conservazione e gestione delle risorse per lo sviluppo”; la terza su “Il rafforzamento dei Major Groups” per il cambiamento degli stili di vita, a cui devono contribuire i giovani, lavoratori, ONG, sindacati, comunità scientifica e imprese; l’ultima sugli “Strumenti di attuazione” dei modelli necessari per realizzare gli obiettivi dell’agenda stessa.


Lo sviluppo inarrestabile ed il fallimento della politica

Un fallimento della politica mondiale che, in 50 anni, non è riuscita a seguire un percorso per cambiare, secondo i contenuti delineati dalle Conferenze di Stoccolma e Rio, il sistema economico in cui viviamo. Il capitalismo, unito ad una tecnologia sempre più evoluta, si nutre da sempre di povertà, di contraddizioni, di sfruttamento e di competizione. La sostenibilità, come oggi la circolarità, sono solo definizioni che sono state puntualmente svuotate nel tempo dal loro contenuto in grado di costruire un nuovo modello di sviluppo. Per questo motivo le due conferenze hanno prodotto dei risultati, ma non sono stati sufficienti per invertire la rotta e costruire una reale transizione ecologica verso un modello di economia ecologica.

Abbiamo sprecato 50 anni di possibilità per cambiare realmente la politica e l’economia e iniziare a cambiare per salvare l’ambiente.